Venezia 76, About Endlessness: il “cinema di caduta” di Roy Andersson si fa cornucopia
In ogni film di Roy Andersson c’è sempre il “momento della caduta”, quella scena in cui uno dei personaggi, per un motivo qualsiasi, finisce al suolo (in You, the living l’imprenditore che crolla durante la riunione, in Canzoni del secondo piano l’uomo che inciampa scendendo dal treno, ne Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza quello che stramazza in sala mensa). Anche nel suo nuovo film, About Endlessness, ci sarà un signore che verrà messo al tappeto da alcuni passanti che vorrebbero fermare una rissa. Quelle di Andersson sono sempre cadute in pubblico, che avvengono davanti a spettatori inermi che fanno pochissimo per aiutare gli altri a rialzarsi (al massimo si limitano a constatare il decesso). È un momento imprescindibile nel suo cinema di “vulnerabilità”, in cui i personaggi sembrano inesorabilmente dirigersi con andatura claudicante (nel nuovo film, tra gli altri, anche un prete barcollante per il vino, un generale zoppo e una donna con il tacco spezzato) verso quel momento della loro esistenza che li farà definitivamente cadere. Per questo motivo, la coppia volante di About Endlessness deve essere guardata con apprensione. I due amanti che, abbracciati, guardano dall’alto Colonia devastata e irriconoscibile, sorvolano l’apocalisse, ma la loro salvezza è precaria. La gravità, prima o poi, potrebbe tornare ad imporre le sue leggi per vendicarsi. Il loro volo è allo stesso tempo rifugio ed insicurezza, un dono concesso da Andersson ma comunque revocabile. Il loro abbraccio una difesa ma anche qualcosa che li rende meno leggeri. Il paragone con gli “amanti sulla città” di Chagall sarebbe fuorviante: lì non c’era un volo, bensì una ascesa. Non ci si poneva il problema della direzione perché vi era una verticalità obbligata.
In About Endlessness questa condizione di temporaneità viene estesa ad una razza umana che si muove verso la propria estinzione, possibile ma non inevitabile. Andersson confonde il tempo (passa dalla Seconda Guerra mondiale ad un futuro imprecisato) e lo spazio (dalla Siberia alla Germania), affiancando eventi a cui il suo cinema restituisce pari dignità. La sconfitta del nazismo non è più rilevante dell’errore commesso da un uomo che entra con un mazzo di fiori nel ristorante sbagliato (ma magari la ragazza giusta avrebbe reagito come quella del film del 2007). Il mezzo filmico mette ogni scena sullo stesso piano, lo sguardo dello spettatore non le osserva diversamente e persino la voce narrante che le introduce non sembra volerle distinguere.
Se nel suo cinema tutti sono già cadaveri, pallidi ed immobili, la speranza è nel colore del viso di chi è ancora in grado di creare una nuova umanità: bambini, ragazze e immigrati (una bambina che vuole andare ad una festa di compleanno anche se piove, ragazze che ballano davanti ai tavolini di un bar, un rifugiato senza gambe che suona ‘O Sole Mio). La “luce senza pietà” (come lo stesso Andersson la definisce) dei suoi film crea un monocromatismo in cui gli elementi di alterità vengono esaltati.
Quello di Andersson è un film cornucopia, infinito e non finibile, eternamente allungabile. La coppia volante è il simbolo di una esistenza che può proseguire anche dopo la fine dei viventi (“living”). Una possibilità per vivere dopo l’estinzione, termine probabile ma ancora scongiurabile. Perciò, dopo 76 minuti, About Endlessness si ferma, non finisce.