Il regista di Nebraska ed In viaggio con Jack è sempre stato affascinato dalle cose più piccole che muovono le vite degli esseri umani ed ha sempre cercato di narrare le sue storie mostrandole nei loro aspetti più marginali. Non è quindi paradossale che il primo lavoro davvero “grande” di Alexander Payne, per produzione ed ambizioni, parli in realtà di uomini minuscoli che scelgono di rimpicciolirsi nella speranza di vivere in quell’agiatezza che avevano sempre sognato (ogni bene di consumo è più piccolo e quindi costa meno). Questa scala di dimensioni, per cui le persone non sono più alte di una ventina di centimetri, è certamente più congeniale al cineasta americano per parlare di problemi che sono invece planetari ed immensamente più grandi delle beghe della nostra quotidianità.

La grande trovata satirica di Payne sta proprio nel mostrare un capitalismo che con la scusa del progresso ecologico, ovvero la possibilità di inquinare meno e produrre pochi rifiuti, vende a dei poveri frustrati l’illusione di una esistenza nello sfarzo, tra diamanti e ville di lusso. A fare le spese di questi subdoli imbrogli, che raggirano i clienti con clausole non esplicitate e mezze verità, c’è naturalmente l’average Joe americano di Matt Damon, che da Hereafter sino al recente Suburbicon si è dimostrato un corpo scenico fenomenale per questo genere di ruoli.

È incredibile come a Damon basti una camicia mediocre ed un taglio di capelli non particolarmente curato per rendere su schermo in maniera egregia la classe media, con le sue angosce e le sue vane aspirazioni. È tragicomica la maniera con cui Paul Safranek si affida alle cure di uomini normali per diventare minuscolo, senza chiedersi mai perché loro restino così come sono se il mondo in miniatura è realmente formidabile come continuano a ripetergli. In questa successione quasi coeniana di sberleffi, il protagonista è sempre disposto a lasciarsi abbindolare anche dopo l’ennesima fregatura e a sognare ad occhi aperti paradisi che in realtà non possono esistere (non “paradisi amari” come quelli di un precedente lavoro di Payne, ma utopistici e farlocchi).

Quello che invece delude di Downsizing è la sua normalizzazione nella seconda metà. Perché se nei primi sessanta minuti Payne dimostra una passione non scontata verso gli aspetti fantascientifici della sua storia, dalla descrizione delle operazioni chirurgiche che vengono eseguite sui pazienti prima della miniaturizzazione al realismo delle dinamiche socio-economiche di Leasureland, successivamente questa satira sci-fi si trasforma nel classico road movie americano in cui un gruppo di personalità stralunate viaggiano insieme verso una meta comune. Nonostante l’esperienza decennale di Payne in questo genere di storie, la seconda parte di Downsizing non solo sembra fuori contesto ma tradisce le potenzialità del film proprio nel momento in cui sembrava seguire formule diverse da quelle già collaudate e dal comprovato successo.

Un cambiamento che si avverte anche nel tono della narrazione, che dallo spirito cinico ed iconoclasta dei migliori lavori di Payne (Election), in cui emerge un genuino disprezzo per tutto ciò che si definirebbe istituzionale, vira sulla più tradizionale fiaba agrodolce con protagonisti degli “outsiders” dalla condotta non sempre impeccabile ma dal cuore grande.

Al cinema dal 25 gennaio 2018.